Nei primi anni Ottanta del secolo scorso prendo fra le mani un libro curato da Rita Caccamo De Luca dal titolo “Critica del senso comune. Verso una nuova sociologia”, edito da Editori Riuniti. L’autore è Zygmunt Bauman. Non è ancora il famoso sociologo della vita liquida che nel nuovo millennio sarà pubblicato in tutto il mondo, ma il volume, scritto nel 1976, contiene già tutti quegli ingredienti (approccio filosofico, modelli, utopie) che lo renderanno uno straordinario interprete della contemporaneità, dei luoghi e delle trasformazioni della società.
Perché Bauman serve agli architetti?
Cosa ha a che fare Bauman con lo spazio urbano e architettonico, o con il progetto?
Da un lato si potrebbe rispondere, proprio riprendendo alcuni concetti della sua “Critica del senso comune”, che ogni volta che il campo di indagine supera il confine (protetto) dell’unico, dell’irripetibile e dell’insostituibile, il pensiero diventa sociale, esattamente come l’architettura richiede sempre una relazione contestuale che non nasce solo dall’essere soggetto in un contesto, quanto piuttosto parte di una realtà.
È un tema fondante dell’azione progettuale, ma che Bauman sviluppa criticamente, proprio partendo dall’idea di senso comune, cercando di metterci in guardia sui gradi di non libertà che vengono prodotti (regolamenti, vincoli, costrizioni) e sulla “posizione di techné” che interpreta le istituzioni umane sempre più come oggetto di una “manipolazione tecnologicamente informata”.
Dall’altro lato si può aggiungere che nulla come il pensiero di Bauman può servire all’architettura per comprendere gli effetti della “modernizzazione perpetua, compulsiva, ossessiva, generatrice di dipendenza” di cui il prodotto (edilizio/architettonico) è un valido strumento consumistico in un “pianeta saturo”.
Scrive Buaman: “Progettare ha senso nella misura in cui non tutto, nel mondo esistente, è come dovrebbe essere. Ma la cosa ancor più importante è che il progettare vede riconosciuti i suoi meriti se quel mondo non è quello che potrebbe essere, considerati i messi disponibili o auspicabili per cambiare le cose. Il fine della progettazione è assegnare più spazio al ‘buono’ e meno spazio, o nessuno spazio, al ‘cattivo’. È il buono che fa del cattivo ciò che è: cattivo. Il ‘cattivo’ è lo scarto del miglioramento“.
Ecco quindi cambiare molti punti di rifermento:
Vorrei ancora ricordarlo con alcune sue parole dette all’evento liquido del Meet the Media Guru 2013 sul palco del Dal Verme di Milano, riportate da Maria Grazia Mattei nell’introduzione del piccolo ma illuminante volumetto “La vita tra reale e virtuale” edito da Egea, perché sono parole che per gli architetti contano: “Le città contemporanee sono dei cestini della spazzatura per problemi creati nello spazio globale e per i quali non possono fare nulla. I nostri problemi sono senz’altro un prodotto globale ma le soluzioni sono demandate a coloro che risiedono nelle città. I centri urbani, in particolare i più estesi, sono costretti ad agire come laboratori di sperimentazione e progettazione delle soluzioni alle diverse situazioni, prima che queste diventino operative. Le città sono l’ultima speranza per un’azione collettiva veramente efficace“.
(di Marcello Balzani) https://www.architetti.com/bauman-perche-serve-agli-architetti.html
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